lunedì 21 aprile 2014

Si spegne “Afo4”: il buio sulla città che si credeva inox

La passione di Piombino alla vigilia dello stop all’altoforno. Ma risorgere si può: come dimostrano due aziende pisane

di Giampaolo Simi


Quando dici "acciaio" dici quanto di più robusto riesci a pensare. Qualcosa che resiste al tempo in maniera persino soprannaturale perché, appunto, se la natura ha provveduto spontaneamente a creare il granito o il marmo bianco, non aveva previsto l'esistenza dell'acciaio. L'acciaio ha una robustezza sovrumana che senza l'uomo non sarebbe mai esistita.
Un intervento di cui la nostra specie va fiera, da sempre, senza distinzioni di latitudini e di politica. Era d'acciaio il patto fra Germania e Italia nella Seconda Guerra Mondiale e l'affidabilità dell'acciaio riluceva anche nello "Stalin" con cui passò alla storia un rivoluzionario georgiano di nome Iosif Vissarionovi›. Džugašvili.
Ma è un “uomo d'acciaio” anche l'incarnazione per eccellenza del sogno americano, il Superman metà alieno metà uomo comune che continua a trovare sempre una cabina da cui uscire svolazzando. Intorno alla sterminata acciaieria di Piombino le cabine telefoniche sono pochissime e in rovina, decimate come ovunque dall'avvento della telefonia mobile. Clark Kent stenterebbe a trovare il suo posto preferito per trasformarsi in un supereroe.
Ma a Piombino oggi nessuno crede più né agli uomini d'acciaio né agli uomini d'oro, che siano italiani, russi o mediorientali. Ne sono passati, in una storia che comincia nella seconda metà dell'800, quando lo stabilimento della Magona, allora minuscolo, faceva bello sfoggio di sé persino sulle cartoline illustrate di Piombino, come una delle attrattive della zona, alla stregua di Populonia o Baratti.
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Le crisi cicliche, i fallimenti e le cadute nelle mani delle banche hanno fatto parte di questa storia fin dagli albori. Ma stavolta si tratta di spegnere Afo 4, come viene chiamato con uno di quei diminutivi che sanno quasi di affetto, l'ultimo nato di una serie di grandi altoforni. A essere precisi, non sarà spento in senso vero e proprio, ma entrerà in una specie di coma indotto da cui sarà ancora tecnicamente possibile un pieno risveglio. In teoria potrà tornare in piena attività, ma il timore è che subito dopo Pasqua si possa consumare una tappa fondamentale di una via crucis lunga più di tre decenni. Con scarse possibilità di resurrezione.
Afo 4 è il cuore di fuoco dell'acciaieria, simboleggia l'affidabilità stessa dell'acciaio, il suo essere inossidabile. Perché è chiaro che nei metalmeccanici e nella siderurgia si è riverberato, come l'alone luminoso delle colate incandescenti, anche l'ultimo bagliore della retorica operaista più pura e vigorosa. Retorica prima usata e abusata, poi frettolosamente accantonata, come se fosse il primo vero settore da dismettere. Se la storia di una comunità dà degli appuntamenti, questi ultimi mesi di passione della Lucchini cadono giusto a vent'anni da quando un giovane regista livornese scelse Piombino e l'acciaieria, allora ancora Ex Ilva, per il suo fulminante esordio. Riguardate in questi giorni amari “La bella vita” di Paolo Virzì. Lo troverete a dir poco profetico. Soprattutto perché distrugge con ineffabile tenerezza proprio la figura dell'operaio nobilitato da una vita spesa in un inferno di fumi tossici e di fuliggine.
Anche i lavoratori di quel lontano 1993 stavano lottando. Qualche risultato l'avrebbero raggiunto. Come? Con lo sciopero più lungo che Piombino ricordi e minacciando persino di fare, per protesta, proprio ciò che i lavoratori oggi maggiormente temono: spegnere l'altoforno. Un gesto estremo, di una forza simbolica così incontrollabile da essere sentito persino come autolesionista («La fabbrica è di tutti» ammonisce a un certo punto la sindacalista). Ma gli operai di quel film sono già sedotti dalle sirene di un'altra vita, aspirano al lignaggio dell'uomo che diventa manager di se stesso e si fa artefice del proprio destino. La sua fiducia nello Stato o nel sindacato è infatti irrimediabilmente corrosa. Quei protagonisti non vogliono più sentire né il peso né l'orgoglio di una grande storia collettiva.
Qualche anno dopo, l'acciaieria descritta da Silvia Avallone nel suo bestseller sarà lo scenario di fughe adolescenziali, sfondo letterario del mal di vivere provinciale, territorio misterioso solo perché in parte ormai dismesso e spettrale. E il giovane operaio Alessio, oltre a votare convintamente a destra, sembra uscito da una pubblicità di Dolce e Gabbana.
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Eppure, nell'acciaieria di Piombino la definizione di “aristocrazia operaia” acquistava un senso che nella logica non sembrava possibile: c'è qualcosa di meno aristocratico di spezzarsi la schiena spalando tonnellate di minerale grezzo, di rischiare la vita nutrendo giorno e notte un mostro che ingoia una specie di lava incandescente? E invece basta ascoltare l'intervista a un anziano operaio che trovate nello speciale multimediale sul sito de Il Tirreno per capirlo. Più dal tono di voce che dalle parole. Chi entrava in acciaieria negli anni '70 svoltava, la stabilità era garantita e gli stipendi permettevano di guardare più in là della mera sussistenza familiare. Il dopoguerra aveva avuto bisogno di acciaio, il boom economico aveva avuto bisogno di acciaio, l'Italia di domani non poteva certo fare a meno né di binari né di chiodi. La sicurezza proveniva dalla sensazione di essere necessari. E poi la fabbrica era un mondo intero, oltre i cancelli e le recinzioni si usava una lingua che solo gli iniziati con il casco giallo padroneggiavano: siviere, loppa, vergelle, blumi, billette, cokeria. Verso la fine degli anni '70 quello di Piombino era il più grande altoforno d'Europa, la fabbrica era ormai più estesa della città stessa.
Ancora oggi, se osservate gli edifici bruniti dal tempo, i piazzali anneriti dal carbone, i carriponte e i silos, avrete l'impressione di trovarvi davanti quasi tutta l'imponente storia del lavoro umano, dall'antico al moderno, dal primitivo dio Vulcano all'industrializzazione avanzata. Non era solo una questione di stipendi, insomma. Era una questione di epica. Se invece andate nella borgata Cotone, il quartiere operaio affacciato sull'acciaieria, troverete una strada che costeggia un muro interminabile. Siccome il muro era ben più deprimente delle ciminiere che doveva nascondere, su ogni singolo pannello di cemento armato alla fine degli anni '90 vennero dipinti dei murales. Da Topolino a qualche astrazione metafisica, da Madre Teresa di Calcutta a Pinocchio, dai Maya agli Egizi fino ai Simpson, il vecchio quartiere dormitorio non proiettò sul muro grigio dell'acciaieria niente di epico e nemmeno una storia vera e propria.
Solo una sequenza di sogni individuali, pensieri accorati, frammenti di speranze che questi anni hanno già, impietosamente, sbiadito.
21 aprile 2014    
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