Primo maggio: la festa non è finita…
Quella che vi consegno è una memoria che ha centodieci anni. Parla del nostro popolo e dell’inizio intrepido e glorioso del proletariato valsusino. Parla di scalpellini, dei “picapera” di San Giorio, che costituiscono, su ispirazione del maestro Virgilio Bellone (dirigente socialista e poi tra i fondatori con Gramsci del Partito Comunista d’Italia a Livorno), la prima lega di resistenza e festeggiano per la prima volta la festa dei lavoratori.
I “professionisti della legalità” cercano di fermarli, ma non ci riescono, come oggi del resto…Ecco un po’ di radici, belle e degne, della “Valle che resiste”!
Diamo dunque la parola al racconto di Virgilio Bellone, che intervistai e registrai a 96 anni, lucido e indomito come allora. (gigi richetto)
“1 maggio 1903: una trentina di scalpellini di San Giorio (Susa), seguendo l’esempio degli scalpellini di Villarfocchiardo, si costituirono in lega di resistenza aderente alla Federazione Edilizia di Torino. Allora, secondo la stagione si lavorava 10-12 ore il giorno a 3 lire giornaliere. Gli scalpellini si radunavano per lo più il sabato sera in una stanzaccia mezza granaio e mezza fienile, lassù nella frazione montana dei Martinetti, dove c’erano anche le cave di pietra. Non sempre si discorreva degli interessi della categoria; molte volte uno della compagnia leggeva ad alta voce qualcuno degli opuscoletti da uno o due soldi che circolavano e che portavano la firma degli esponenti maggiori del socialismo italiano: Prampolini, Bissolati, Turati, Morgari…E su quegli opuscoletti si discuteva a lungo. Durante l’inverno i lavoratori s’erano fatti arrivare da Milano una copia dell’Inno dei lavoratori, musicato, che con la guida d’una cornetta impararono a cantare egregiamente. I carabinieri di Bussoleno non tardarono a fare un loro sopralluogo, giusto un sabato sera. Vollero il nome degli aderenti alla lega; avvertirono di non fare della politica e consigliarono di bruciare il materiale propagandistico che gli scalpellini tenevano in sede; quindi se ne andarono in pace.
Ed eccoci al primo maggio 1904, giornata limpida e tiepida. Non avendo potuto avere da Torino un oratore della giornata, decisero di festeggiare per la prima volta la grande data. Primo: astensione dal lavoro; secondo: corteo pomeridiano lungo la via principale del capoluogo al canto dell’Inno dei lavoratori a tempo di marcia; terzo: una merenda sull’erba fra i ruderi del vecchio castello feudale. Quando il corteo degli scalpellini, a cui s’erano aggiunti alcuni artigiani locali, sfilò cantando in mezzo al paese, molta gente, specie donne e ragazzi, s’affacciarono agli usci delle case a osservare e a commentare. Commenti in gran parte negativi e di scongiuro. Come poteva essere concepibile una “processione” di soli uomini e senza l’accompagnamento di preti, di ceri, di canti liturgici? Era forse venuta l’era dell’Anticristo? Più tardi seguì la merenda sociale. Sul più bello piombarono i carabinieri di Bussoleno. Silenzio generale. I due tutori dell’ordine chiesero chi fossero i promotori della festa. Avuta risposta che promotori erano tutti i convenuti in quanto la cosa era stata deliberata in assemblea, il brigadiere dichiarò la lega in contravvenzione per avere fatto il corteo senza il preavviso alla Autorità di Pubblica Sicurezza locale. Cento lire di ammenda o accettare che il verbale di contravvenzione andasse alla Pretura mandamentale, con tutte le conseguenze di legge. Questi poveri diavoli trasecolarono.
Un vecchio scalpellino, tutto bianco di capelli e di barba, abbronzato dalle lunghe intemperie, con una vocina che tradiva la silicosi avanzata, disse al brigadiere che a quanto risultava lo Statuto del Regno d’Italia permetteva ai cittadini di adunarsi pacificamente senz’armi…’Tutto bene’, fece osservare il brigadiere, ‘purchè ci si uniformi alla legge di Pubblica Sicurezza che ne regola l’esercizio nell’interesse dell’ordine pubblico’.
Il vecchio scalpellino non perdette la bussola davanti alla forza maggiore. Si rivolse ai suoi compagni con brevi parole: ‘Non lasciamo che per la prima volta che festeggiamo il primo maggio le cose finiscano in brutto. Mettiamo la mano nel taschino e leviamo quello che possiamo: due soldi, dieci soldi, una lira, due lire, cinque lire: ciascuno faccia del suo meglio. Pagheremo la multa seduta stante. Mise il suo cappellaccio rovesciato sull’erba e vi gettò dentro per primo il suo obolo. Lo seguirono a gara i compagni – una cinquantina – e dopo cinque minuti fecero il computo del ricavato: c’erano là sull’erbetta fresca 107 lire! Scoppiò un urlo; allora il vecchio bianco per antico pelo chiamò a sé due giovani in gamba e disse forzando la voce che tutti sentissero: le sette lire in soprannumero fan mezza brenta di vino. Prendetele voi due, e scendete dal Cesarino; fatevi dare un’altra damigiana…”
Grandi applausi e grida di viva il Primo Maggio. Poi echeggiò nell’aria un’altra volta l’inno: ‘Su fratelli, su compagni…”.
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