Lucchini, si spegne l’altoforno
Acciaieria di Piombino. In un'assemblea semideserta, gli operai votano cig, solidarietà e chiusura dell'area a caldo
A capo chino e con il cappello in mano, gli operai delle Acciaierie di Piombino accettano la chiusura dell’altoforno, cuore produttivo del secondo polo siderurgico italiano dopo l’Ilva di Taranto. In cambio il ministero dello sviluppo economico ha dato il suo ok alla possibilità di fare ricorso ai contratti di solidarietà per tutti i 2.200 addetti diretti della ex Lucchini. Ma solo fino alla chiusura della procedura di vendita degli impianti, visto che una nota del ministero dello Sviluppo Economico puntualizza: “Nel periodo successivo all’assegnazione al nuovo soggetto, saranno utilizzati ammortizzatori di tipo conservativo”. Cioè non soltanto solidarietà, ma anche cassa integrazione.
Quanto ai circa 1.700 lavoratori del vasto e frastagliato indotto della gigantesca cittadella dell’acciaio, il ministero guidato dalla confindustriale Federica Guidi ha dato “la disponibilità all’utilizzo degli ammortizzatori sociali per i lavoratori occupati nelle imprese”. Nella migliore delle ipotesi, insomma, vanno in cassa integrazione. Con un ulteriore passaggio, generale, ricordato dal segretario della Uilm locale, Vincenzo Renda: “Perché queste richieste siano accolte è necessario un intervento legislativo ad hoc, quindi un decreto del governo”.
Le conclusioni dell’incontro chiuso la scorsa notte al ministero dello sviluppo economico, con l’ipotesi di accordo firmata dal viceministro Claudio De Vincenti, dal commissario governativo Piero Nardi e dai rappresentanti di Fim, Fiom e Uilm, sono state riassunte ieri mattina in una assemblea di fabbrica che non ha brillato per partecipazione. Di circa quattromila lavoratori interessati, in meno di quattrocento hanno discusso del loro, non certo facile, futuro.
Più in dettaglio, fra gli addetti diretti (Lucchini spa e Lucchini servizi) ci sono stati 357 votanti, e solo 39 sono stati i presenti fra le imprese dell’indotto. E’ arrivato un via libera quasi unanime: rispettivamente il 97% e l’ 86% di “sì” all’accordo. Però un gruppo di operai ha chiesto un nuovo referendum, dopo le feste pasquali, perché siano votate possibili iniziative di lotta da martedì, giorno fissato per la progressiva fermata dell’altoforno, fino al 30 maggio, quando si chiuderà il bando per le offerte vincolanti all’acquisto dello stabilimento.
Al di là dell’ottimismo di maniera, i pesantissimi contraccolpi della fermata dell’altoforno — gli addetti dell’area a caldo sono più di un migliaio – sono stati evidenziati anche a Montecitorio, grazie a un intervento di Marisa Nicchi di Sel: “Gli ultimi governi hanno lasciato la Lucchini in balia del mercato. Ora è necessario firmare subito l’accordo per il rilancio industriale dell’area, e garantire gli ammortizzatori sociali”. Sul primo fronte, il ministero si sarebbe impegnato a inserire nell’accordo di programma, atteso a giorni, una raccomandazione per i futuri compratori a investire in un forno elettrico e in un nuovo impianto Corex, sfruttando i fondi europei per la riqualificazione della siderurgia.
Al massimo che vada, dopo anni di stop per i lavori, il sito di Piombino avrebbe comunque una capacità produttiva (ben) più limitata di quella garantita da un altoforno funzionante. Nel frattempo, durante lo smantellamento dei vecchi impianti e la bonifica dell’area, c’è l’ipotesi di far lavorare gli operai in esubero e le stesse imprese dell’indotto. “Nessun paese europeo – tira amaramente le somme il piombinese Alessandro Favilli, segretario toscano di Rifondazione – perde la siderurgia come fa l’Italia. Questo è un accordo al ribasso, con la sudditanza del sindacato al Pd e a Confindustria, che nel comparto dell’acciaio vuol dire Marcegaglia. Piombino è lo specchio di quello che ha significato un tempo la lotta di classe, e della sconfitta del movimento operaio in questa fase”.
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