mercoledì 23 aprile 2014

LUCCHINI - PIOMBINO-
 La rinascita di Piombino legata ai soldi di Roma

-Il Tirreno-
di Cristiano Lozito
PIOMBINO  mer 23 apr, 2014



Sono le ultime ore per l’altoforno, il vecchio gigante intorno al quale, per decenni, ha ruotato la vita delle acciaierie piombinesi e di una città intera. Verrà “addormentato” con una robusta iniezione di coke, una magica pozione che lo terrà in temperatura per 20 giorni, forse un mese. Ci sarebbe dunque la possibilità di risvegliarlo, ma qui tutti sanno che nessuno lo farà. Spariti gli arabi della Smc che con le loro mirabolanti promesse (un miliardo e mezzo di investimenti per spostare e modernizzare lo stabilimento mantenendo in vita l’altoforno), avevano riacceso le speranze di un finale fiabesco, Piombino ha dovuto fare i conti con la realtà, rappresentata comunque vada dalla fine di un’epoca, di un modello economico e culturale, con l’apertura di una fase durissima per centinaia di famiglie.
Con la fermata dell’altoforno l’effetto immediato sarà lo stop dell’area a caldo dove lavorano un migliaio di dipendenti Lucchini e almeno 400 lavoratori dell’indotto. Così dopo 150 anni, la seconda fabbrica siderurgica d’Italia, una delle più importanti d’Europa, smetterà di produrre acciaio. I tre potenziali acquirenti rimasti in lizza nella procedura fallimentare, al momento sono sicuramente interessati solo ai laminatoi, dove si lavora acciaio prodotto da altri. Uno tra loro, l’indiano Sajjan Jindal, patron della Jsw, starebbe valutando anche l’ipotesi di realizzare un forno elettrico e un Corex (il moderno sostituto dell’altoforno, più flessibile e meno inquinante): ma per seguire questa strada ci vogliono soldi dell’investitore, incentivi pubblici, impegni dello Stato per le bonifiche, e comunque almeno 3-4 anni.
Ecco perché le energie dei sindacati sono state concentrate sull’utilizzo degli ammortizzatori sociali, con contratti di solidarietà per i dipendenti Lucchini e cassa integrazione per le imprese, mentre il sindaco Gianni Anselmi e il governatore toscano Enrico Rossi, sono impegnati a dare corpo a un progetto enormemente ambizioso per il rilancio dell’industria, finalmente ecocompatibile, collegata allo sviluppo delle infrastrutture e del porto, dove dovrebbe essere realizzato un bacino per lo smantellamento delle navi militari. Da cui ricavare rottame a chilometri zero per il forno elettrico in un processo virtuoso che renderebbe la nuova siderurgia piombinese decisamente moderna e competitiva. Un progetto ambizioso quanto complicato per via della quantità di istituzioni e ministeri coinvolti nell’Accordo di programma, lo strumento che deve contenere tutte queste previsioni. Si sa come sono gli Accordi di programma in Italia, e Piombino lo ha già sperimentato.
C’è il triste esempio di Bagnoli: si fanno previsioni, si prendono impegni. Poi il tempo passa, le condizioni cambiano e ci si ritrova con un pugno di mosche in mano. Ecco perché mentre ieri dal ministero dello Sviluppo trapelava la convinzione di una rapida firma sull’Accordo, è arrivata la voce della Regione – che sul piatto mette almeno 60 milioni – a far intendere che invece le cose non vanno. Del resto Rossi è un duro, da mesi ha annunciato che su Piombino si gioca tutto, e i vaghi impegni «a trovare le risorse» non gli bastano. Ieri la discussione al Mise col viceministro Claudio De Vincenti è durata fino a tarda sera, e quando i protagonisti si sono alzati dal tavolo la situazione era in alto mare, per le resistenze del Governo ad accettare le richieste toscane.
La Regione vuole per le bonifiche almeno 50 milioni dallo Stato, 30 milioni per il completamento della strada di collegamento al porto promessa da decenni, l’impegno messo nero su bianco del ministero della Difesa a deviare dalla Turchia a Piombino la rottamazione delle navi militari, e l’attribuzione ai lavoratori della Lucchini e delle imprese delle attività di smantellamento dell’area a caldo. «Senza queste condizioni non firmo», ha annunciato con un tweet il governatore, e c’è da credergli vista la sua consapevolezza dei rischi anche sociali che comporterebbero decisioni al ribasso.
Il governo, che per decenni con la siderurgia di Stato ha spremuto il territorio, può fare quanto gli viene richiesto: non sarebbe un regalo, ma un risarcimento, un atto di riconciliazione con una città che con l’acciaio ha sì conosciuto il benessere, ma ha pure pagato un alto tributo, tra morti sul lavoro e degrado ambientale.

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