Lucchini: il dramma dei 1400 futuri cassintegrati
A fine aprile si spegne l’altoforno, Piombino rischia il ko Fissato l’incontro con i ministeri per discutere degli ammortizzatori sociali
di Cristiano Lozito 27 marzo 2014
PIOMBINO. Cassa integrazione in arrivo per più di mille dipendenti della Lucchini e per almeno 400 operai dell’indotto: è la sberla che rischia di mandare al tappeto non solo Piombino ma più in generale la Val di Cornia, 60mila abitanti e un Pil che per la metà viene dalla siderurgia.
Sono infatti sfumati i sogni del salvataggio da parte del gruppo arabo Smc, escluso dalla gara per l’assenza di garanzie finanziarie, teoricamente ancora in corsa se presenterà le fideiussioni più volte annunciate, ma la cui credibilità è azzerata dalle continue promesse non mantenute e dalle notizie emerse negli ultimi giorni sui trascorsi giudiziari del suo patron Khaled al Habahbeh.
Nessuna delle tre società rimaste in corsa per l’acquisto della Lucchini vuole più la vecchia, malmessa e costosa area a caldo, e così il secondo polo siderurgico italiano (2000 dipendenti diretti e poco meno nell’indotto) salvo miracoli dell’ultima ora vedrà spegnere tra meno di un mese il suo altoforno. I sindacati a quest’ipotesi però non si arrendono, e chiedono che l’altoforno resti in marcia almeno sino alla fine di maggio, termine fissato per la presentazione delle offerte vincolanti, per dare un’ultima chance alla Smc.
Del resto l’altoforno è simbolo non solo di una fabbrica ma anche di una città e di un territorio che da 150 anni vivono di acciaio. Billette e rotaie hanno portato il benessere, in cambio di decenni di sacrifici, morti sul lavoro, gravissimi danni ambientali.
Ci lavoravano in 10mila, all’allora Italsider, all’epoca della prima grande crisi, all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso. Ci pensò lo Stato – allora non ci si preoccupava del debito pubblico e della tenuta dei conti dell’Inps – a sistemare le cose evitando drammi sociali, con un progressivo svuotamento della fabbrica grazie a prepensionamenti di massa.
Quando arrivò Luigi Lucchini, a cavallo del 1992-93, in fabbrica lavoravano ancora 3mila persone, ma il Cavaliere dopo 38 giorni di sciopero restrinse il campo dei dipendenti a poco più di duemila. Dieci anni dopo un’altra crisi, la cui soluzione viene affidata a Enrico Bondi, fino alla cessione dello stabilimento ad Alexej Mordashov, capo del gigante russo Severstal, che porta con sé nuove speranze di sviluppo, e bei guadagni nella tasche del “Carrarmato”, come lo chiamano dalle sue parti, grazie a due anni di boom dell’acciaio.
Poi nel 2010 l’imprenditore russo lascia Piombino in un mare di debiti con le banche, 770 milioni di euro, ed è il sindaco Gianni Anselmi a fare il giro d’Italia in cerca di imprenditori interessati all’acquisto. Sforzo vano, fino all’amministrazione controllata e poi al commissariamento di fine 2012, affidato a Piero Nardi, ex manager Lucchini.
Insomma, anni di agonia per la fabbrica, arrivata in questi giorni a un punto che sembra di non ritorno, almeno per come i piombinesi hanno vissuto e conosciuto fino a oggi quella che continuano a chiamare l’“Ilva”. Nella procedura fallimentare trascorsa tra veleni, sospetti, e il colpo di scena dell’offerta poi franata da parte degli arabi di Smc Group (gli unici a volere lo stabilimento nella sua interezza, altoforno compreso, e a garantire la piena occupazione) le proposte rimaste in corsa, solo per i laminatoi, sono tre: quella di una piccola società ucraina di trading, la Steelmont, la Jspl di Naveen Jindal, e la Jsw del fratello Sajjan. Su quest’ultima offerta indiana si fondano le residue speranze di un futuro meno grigio, visto che la Jsw sarebbe interessata anche a un forno elettrico e a un moderno Corex per sostituire l’altoforno, col sostegno economico di fondi comunitari per una cinquantina di milioni. Ma si parla di ipotesi, e di tempi comunque non inferiori ai 3-4 anni.
Ecco perché nell’ultimo incontro a Roma con le istituzioni, il viceministro dello Sviluppo economico, Claudio De Vincenti, ha mostrato grande fretta nel completamento dell’Accordo di programma: lì infatti vanno inseriti i meccanismi di tutela per i lavoratori che prevedibilmente da maggio saranno fuori dal circuito produttivo. De Vincenti ha promesso ammortizzatori sociali anche per le imprese dell’indotto, con un accordo quadro d’area che preveda con la cassa integrazione anche altri strumenti, come i programmi di formazione e la solidarietà, in modo da rendere meno duro il passaggio a quella che il governatore Enrico Rossi ha definito «la riconversione ecologica dell’area siderurgica piombinese».
Una riconversione disegnata sulla previsione di una filiera col suo punto di partenza sul porto dove è in corso un gigantesco ampliamento, e in cui dovrebbe sorgere un polo di rottamazione europeo della grandi navi, idealmente collegato a un forno elettrico molto competitivo perché alimentato appunto da rottame a chilometri zero, a un ecologico Corex (per il quale non serve l’inquinante cokeria) in grado di produrre ghisa di qualità, e alla liberazione di aree importanti per nuovi insediamenti produttivi in settori innovativi. Un percorso invitante ma dai tempi lunghi e comunque pieno di ostacoli: già il primo passo, che avrebbe una funzione sia d’immagine che di sostanza, e cioè la rottamazione della Costa Concordia a Piombino, sembra più che a rischio, in favore di Genova. Sarebbe un’altra sberla alla città, che Enrico Rossi ha definito «intollerabile».
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