martedì 11 febbraio 2014

 La crisi della Lucchini di Piombino







La crisi economica italiana, la crisi di produzione, mette in perocolo la Lucchini. ed ora si rischia la chiusura dello stabilimento e la perdita di 5000 posti di lavoro che si aggiungono ai 3000 licenziati degli ultimi anni. Il governo dovrà dare risposte concrete



Ci sono storie, brutte storie nel nostro paese. A Piombino  c’è il mare, il porto, l’acciaio e le industrie che chiudono, lo stato è latitante e non da risposte alle tragedie economico-lavorative. Di Taranto e dell’Ilva ormai si conosce (quasi) tutto. Ma su Piombino c’è una cappa di silenzio da parte dei media e delle istituzioni, nonostante perfino il sindaco della città – Gianni Anselmi – si arrampicò, lo scorso ottobre, sul tetto dell’industria siderurgica insieme a tre operai per chiedere di essere incontrati da parte del governo.

Piombino è una cittadina di 35.000 abitanti, 5000 di loro, tra produzione ed indotto, lavorano nelle tre industrie siderurgiche locali: la Lucchini, la Magona e la Dalmine. La Lucchini in particolare è la più grande, 2100 operai e 1500 lavoratori dell’indotto, ed è, un’ industria siderurgica italiana a ciclo integrale, con una produzione media di 2,3 milioni di tonnellate di prodotto all’anno, tranne nell’ultimo anno quando la produzione è stata nettamente diminuita (1,2 milioni) arrivando, il 13 dicembre, allo spegnimento dell’altoforno. Era una situazione che non si verificava dal 1989 quando, comunque, fu spento per ragioni di manutenzione, ora viene spento perché la Lucchini si avvia alla chiusura quindi vengono diminuiti i turni lavorativi e la produzione, dei 2100 dipendenti 1943 sono già in contratto di solidarietà e a ciò si aggiunge che dal 2008 già sono stati licenziati 3000 dipendenti tra le tre ditte siderurgiche.

La crisi della Lucchini inizia nel 1991 quando l’industria fu coinvolta nel piano Utopia voluto dall’Ilva per l’ammodernamento delle strutture siderurgiche italiane, piano che non decollò mai e lasciò l’azienda toscana in un mare di debiti che furono in parte coperti da un investimento di 800 milioni di euro da parte dell’holding Lucchini spa nel 2003. In seguito a questa ristrutturazione del capitale l’industria viene ceduta ai russi della Severstal che inaugurano un piano di ampliamento dell’industria con la costruzione di un nuovo altoforno. I lavori durano sei mesi e si bloccano nel 2008, il nuovo altoforno è ancora lì, in attesa di essere costruito. Ancora debiti che si acuiscono con la crisi finanziaria globale che ovviamente travolge anche l’acciaio di Piombino. Nel febbraio di quest’anno il tribunale di Milano chiede di accelerare i tempi per trovare un compratore entro sei mesi, ma la crisi è tale che perfino la Severstal, pur di togliersi dall’empasse, si è impegnata a vendere alla cifra simbolica di un euro. Ma un acquirente interessato alla Lucchini dovrebbe far fronte a una spesa di circa un miliardo di euro, di cui 770 milioni per coprire il debito con le banche e i restanti per riavviare un piano di produzione. A differenza dell’Ilva non ci sono costi per la riqualificazione ambientale perché, caso più unico che raro in Italia, la Lucchini rispetta le normative europee in fatto di emissioni, impatto sull’ambiente e tutela della salute dei lavoratori che, fino agli ultimi tagli, avevano diritto alla visita medica gratuita ed obbligatoria.

Finora completamente assente, lo stato dovrebbe avviare un piano per l’intero settore siderurgico italiano, considerando che il fallimento della siderurgia italiana vorrebbe dire una catastrofe economica per il paese che è secondo in Europa per quantità di acciaio prodotto, inoltre Piombino è l’unica industria in Italia dove si producono i binari per l’alta velocità e il blocco della produzione significherebbe comprare il prodotto dall’estero. Piombino rappresenta l’industria primaria italiana, quella che produce il materiale per le infrastrutture, i trasporti sulle quali si basa lo sviluppo di un paese. Inoltre la Lucchini come la Fiat rappresenta il fallimento della politica della non-differenziazione economica sul territorio, che, dal dopo guerra, ha sempre legato determinate località del nostro paese ad un solo tipo di produzione in mano privato, facendo sì che l’economia locale non godesse di alternative al polo settoriale assegnato. 

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