giovedì 9 ottobre 2014

LINK IESTA 9/10/2014

La siderurgia manda in fumo altri 1500 posti di lavoro

Piombino e Terni provano a salvare la produzione di acciaio. Ma i licenziamenti saranno inevitabili
Philippe Huguen/Afp/Getty Images
Non c’è solo l’Ilva tra le partite aperte della siderurgia italiana. Altri due simboli dell’acciaio italiano vivono giorni decisivi per il proprio futuro: il sito Lucchini di Piombino e quello di ThyssenKrupp a Terni. Saranno il banco di prova per il futuro dell’acciaio in Italia. Piombino perché sarà il luogo sperimentale - a meno di sorprese - per la nuova tecnologia di forno elettrico alimentato a minerale preridotto, fornita dal gruppo indiano Jindal. Terni perché sta provando a sopravvivere alla crisi, alla volontà dei tedeschi di andarsene, cercando nuovi modi di risparmiare sull’energia. Ma in entrambi i casi il tributo pagato in termini di posti di lavoro sarà molto pesante. 
Piombino aspetta Jindal
Lo stabilimento Lucchini è fallito ufficialmente il 21 dicembre 2012. Da allora è gestito da un commissario straordinario, Piero Nardi (che cura anche la vendita degli altri siti dell’ex Lucchini), in attesa dell’arrivo di un compratore. La fabbrica si chiama ancora Lucchini, ma la famiglia bresciana, che l’aveva rilevata nel 1993 a seguito della privatizzazione di Italsider, se n’è disfatta da anni. Nel 2005 arrivò la russa Severstal di Alexei Mordashov, e fino al 2008 fu l’idillio.  «Nel giugno del 2008, alla Festa de l’Unità, i russi presentarono numerosi importanti investimenti, tra cui il progetto per portare l’altoforno a produrre 3 milioni di tonnellate di acciaio», raccontava qualche mese fa a Linkiesta Luciano Gabrielli, segretario della Fiom della Provincia di Livorno. 
Con la crisi finanziaria di fine anni Duemila cambiò tutto e nel marzo 2009 i russi scorporarono la fabbrica dal resto del gruppo e lasciarono che andasse lentamente verso il fallimento. Dal 24 aprile 2014 l’altoforno non funziona più, ed è in una situazione di “mantenimento”. Dalla scorsa primavera è iniziato il processo di vendita. All’apertura delle buste, la scorsa estate, si è ufficializzato l’interesse del gruppo indiano Jindal (Jsw). L’offerta economica iniziale è stata bassa. Non ci sono cifre ufficiali, ma indiscrezioni parlarono di 10 milioni di euro, a fronte di una cifra ideale di 130 milioni, necessaria per soddisfare i creditori privilegiati e parte dei chirografari. Più di recente è arrivata una seconda offerta, di importo maggiore. Lo stesso presidente e direttore generale della società Jsw Steel, Sajjan Jindal, ha avuto modo di parlarne durante una visita dell’inizio di settembre a Piombino, descrivendola come “inferiore ai 100 milioni di dollari”, ma non specificando oltre. 
Col forno ad arco elettrico lavoro a rischio
In un primo tempo Jindal aveva espresso l’intenzione di rilevare solo la parte “a freddo” dello stabilimento. Si tratta di tre laminatoi, ossia di macchinari composti da rulli che premono progressivamente un semilavorato, dandogli la forma e le dimensioni desiderate. È una parte dello stabilimento che darebbe lavoro a 750 dei 2.332 dipendenti, a cui si aggiungono 1.500 addetti dell’indotto. «Quella di 750 persone è la cifra di Jindal, bisognerà discuterla», dice aLinkiesta Luciano Gabrielli. Il sindacato punterebbe anche al riassorbimento di un altro migliaio di dipendenti, nell’area a freddo. Altre 250 persone, aggiunge Gabrielli, sono destinate ad andare in pensione da qui al 2018. «Se con una modifica alla legge Fornero si permettesse ai lavoratori dei posti industriali in crisi di andare in pensione con 40 anni di contributi invece che 42 anni e sei mesi, questo eviterebbe il ricorso alla cassa integrazione per 3-4 anni».   
Ufficialmente l’offerta del gruppo indiano è ancora limitata a questa parte del sito, ma da settimane la società ha fatto trapelare l’intenzione di intervenire anche sull’area a caldo. A segnare la svolta è stato un incontro dello stesso Sajjan Jindal con il premier Renzi e con il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi. 
Non c’è però l’intenzione di riaccendere il vecchio sito dell’altoforno, che potrebbe essere addirittura trasformato in museo. L’idea è invece di creare un nuovo forno ad arco elettrico, nell’area adiacente ai laminatoi. Questa tecnologia produttiva tradizionalmente permette di realizzare acciai speciali, che vengono ottenuti partendo da semilavorati, e prevede un’alimentazione con rottame. Da qualche anno si sta però sviluppando una forma di alimentazione, con il preridotto, un materiale minerale composto all’85% circa di ferro ottenuto con un procedimento di tipo chimico. «Se un forno elettrico viene alimentato con preridotto, ciò permette di avere una qualità medio-alta», spiega Luciano Gabrielli. Parlare di cosa potrà essere prodotto, aggiunge, è prematuro. Di sicuro non potrebbero essere prodotti i semilavorati chiamati blumi, che arriverebbero dall’India e che servono per produrre le rotaie delle ferrovie. Mentre non è chiaro se possano essere prodotte le più piccole billette. Indiscrezioni raccolte dal Sole 24 Ore parlano di una possibile produzione di 600mila tonnellate annue (contro l’oltre 1 milione di tonnellate del periodo precedente alla chiusura dell’altoforno), che darebbero lavoro a 500 persone, di cui 300 per il forno e 200 per l’impianto. 
A conti fatti è il 50% di posti di lavoro in meno. «Il punto fermo del progetto, purtroppo, è che la Jindal farà acciaio con il forno elettrico. Dico purtroppo perché è un sistema che dà meno occupazione», dice a Linkiesta il sindaco di Piombino, Massimo Giuliani. «Ringrazio il dottor Jindal per lo sforzo economico che sta mettendo in atto. Ma voglio far notare che è una scelta in controtendenza con quello che avviene in Germania, dove si sta riprendendo a costruire altoforni. Noi ne avremmo uno vicino a un porto commerciale, cosa che non è comune». Per il migliaio di lavoratori che ha davanti la prospettiva di perdere il lavoro, aggiunge il primo cittadino, le prospettive di assorbimento potrebbero arrivare dal porto, sia nel sistema logistico che grazie allo sviluppo della parte commerciale, e dallo smantellamento dei siti industriali, almeno per un paio d’anni. C’è anche l’ipotesi di un museo dell’industria. «Vorremmo conservare una tradizione nella siderurgia che è secolare. La prima acciaieria a Piombino risale al 1864, 150 anni fa. Le prime testimonianze di lavorazione del ferro risalgono all’epoca etrusca e il museo ripercorerrebbe un percorso di tremila anni di storia».
Allo stato attuale, il prossimo passaggio sarà l’accordo preliminare di vendita, che dovrà avvenire attorno al 15 di ottobre, anche se la data potrà slittare perché Jintal ha necessità di rifare il perimetro delle aree. Dal giorno del preliminare di vendita ci saranno 90 giorni per le discussioni e gli accordi sindacali. La discussione partirà dall’acquisto dei laminatoi, ma i sindacati chiedono che nei 90 giorni si arrivi a un accordo per tutte le aree.
Tutto ruota attorno al gas
Tutto questo dipenderà da un punto ancora in sospeso: quello del prezzo del gas. I forni ad arco elettrico alimentati con preridotto hanno necessità, per funzionare, di una elevatissima quantità di gas. Per questo sono stati sviluppati in Paesi in cui la fonte energetica è a basso costo. Negli Stati Uniti il prezzo al metro cubo è di 10-12 centesimi di euro, in Italia di 35 centesimi. «Perché l’investimento sia redditizio è necessario che il prezzo scenda a circa 20 ventesimi», dice Gabrielli. Come si arrivi al risultato non è chiaro, dato che incentivi statali sarebbero considerati aiuti di Stato e passibili di sanzioni dall’Ue. Il problema del gas è un problema di costi, aggiunge il sindacalista, mentre la discussione sulla necessità di utilizzare il rigassificatore «non c’entra con la questione». E che non si tratti di dettagli lo dice un precedente sinistro. «Abbiamo avuto un’esperienza negativa con lo stabilimento siderurgico della Magona, a Piombino. Era gestita da Arcelor Mittal e aveva un problema di gas a un costo eccessivo. E Arcelor ha perso il laminatoio». 
Su questo punto, dice il sindaco Giuliani, per ora non ci sono stati contatti con il ministero dello Sviluppo economico. «Ci muoveremo - racconta - per capire le possibilità di incentivi da parte del governo o per trovare altre forme di risparmio. Il problema del gas, infatti, non è solo il costo elevato, ma che il prezzo oscilla. Vogliamo vedere se ci sono strade per lavorare sul potere di acquisto, anche in ambito privato». In questo contesto rientra pienamente l’utilizzo del rigassificatore. «Ci sono soluzioni che stiamo analizzando - si limita a dire il sindaco -, abbiamo strutture poco utilizzate che stiamo analizzando». 
Giuliani ritiene invece che sia “improbabile” la costituzione di un impianto Corex per alimentare il forno ad arco elettrico, in aggiunta al preridotto. Le due misure sono da considerarsi alternative. La scelta sarà, dunque, tra un piano che prevede un alto consumo di gas e un piano che preveda il ricorso al carbone, la materia prima del Corex. In questo secondo caso sarebbe probabile anche la costruzione di una centrale a carbone, dall’impatto ambientale non trascurabile. 

A Terni battaglia sul filo di lana
L’energia è stata uno dei temi trattati anche nella vicenda della Thyssenkrupp di Terni. Qui il futuro degli Acciai Speciali di Terni (Ast) è appeso a un filo molto esile. Il 7 e 8 ottobre ci sono stati incontri al ministero dello Sviluppo economico per scongiurare la messa in mobilità di 550 lavoratori sui 2.800 dello stabilimento, come previsto dal piano di ThyssenKrupp. La multinazionale tedesca ha da tempo deciso di uscire dalla produzione degli acciai speciali. Nel 2012 stabilisce di vendere il comparto e la finlandese Outokumpu si dice disponibile a comprare. Ma l’accordo è bocciato dall’antitrust europeo, per abuso di posizione dominante. I finlandesi, se vogliono comprare la Inoxium e gli stabilimenti di Krefeld e Bochum, devono rinunciare a Terni. Le acciaierie umbre tornano alla ThyssenKrupp, che non sa che cosa farsene. Dalla società tedesca si fa capire che il ritorno della proprietà sarà provvisorio e si prospetta un nuovo piano industriale che ridurrebbe la capacità produttiva potenziale da 1,6 milioni a 900mila tonnellate. 
Ad agosto arriva la procedura di mobilità per 550 persone e un piano di risparmi che prevede risparmi per 100 milioni in tutte le aree di attività. A settembre la procedura di mobilità viene sospesa, fino al 5 ottobre, e comincia un periodo di trattative tra sindacato, Mise e azienda. Per ora non ci sono però risultati positivi, come conferma Marco Bentivogli, segretario nazionale della Fim Cisl. Nell’incontro dell’8 ottobre «sono stati presenti il ministro Federica Guidi e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Graziano Delrio, segno che si è alzato il livello di rappresentanza politico-istituzionale - commenta -. Stanno lavorando a un testo in equilibrio tra le esigenze delle parti, ma l’equilibrio è ancora lontano». Il sindacalista dopo l’incontro del 7 ottobre aveva detto: «c’’è la possibilità che si scenda alla metà e forse al di sotto del numero di 550 esuberi. Per noi è essenziale che la produzione rimanga superiore al milione di tonnellate, con due forni accesi e in marcia, invece che con un forno solo».
La svolta sull’energia elettrica
Tra i passi avanti del tavolo c’è quello che riguarda l’energia elettrica che alimenta i forni, assieme al rottame. Non si tratta di incentivi, sottolinea con forza Bentivogli, perché dopo la legge “salva Alcoa” non c’è più uno sconto che paga lo Stato, anche per i paletti europei. Si sta invece lavorando, aggiunge, «perché si rivedano i contratti con i fornitori e perché si usino gli strumenti virtuosi previsti per gli energivori, prima tra tutti quelli dell’interconnector e della interrompibilità». Sono due strumenti non nuovissimi. L’interconnector è previsto dal 2009. In parole povere, si dà la possibilità alle aziende energivore di costruire nuove linee di interconnessione con l’estero, per potere acquistare energia alle tariffe estere, inferiori rispetto a quelle italiane. La norma prevede che fino al 2015 le imprese possano godere del meccanismo dell’import virtuale: possono cioè acquistare dall’estero a prezzi minori, come se le linee di interconnessione fossero state costruite. L’interrompibilità è uno strumento che esiste invece da molto prima. È la possibilità per le aziende di farsi pagare dal sistema se sono disposte a essere distaccate in caso di necessità, per motivi di sicurezza. Con questi due strumenti, secondo Bentivogli, il risparmio è pari a circa 6 milioni di euro. Non briciole, ma non qualcosa che possa compensare un taglio severo come quello da 100 milioni deciso da ThyssenKrupp. 

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